sabato 22 febbraio 2025

NON ESISTE UN LUOGO TRANQUILLO PER UN UOMO AGITATO -

Voi pensate che io scappi, invece sto fermo: una parte di me almeno è immobile, fa da volano a quell'altra che ho lanciato in giro per cercare un senso. Non uso una rete a strascico, troppo distruttiva e poco selettiva; piuttosto alcuni emissari, sub esperti, che stanno scandagliando gli abissi. Tornano in superficie e mi fanno un cenno con la testa...finora niente! Io nel frattempo sono stato richiesto dal direttore del liceo di mio figlio, col quale ebbi tempo fa un'accesa discussione di tenore letterario, di tenere una piccola conferenza su un argomento particolare. Ho accettato la "sfida" e sabato mattina davanti ad un'ottantina di ragazzi felici soprattutto di non far lezione, ho parlato e discusso per circa un'ora. Il canovaccio iniziale ve lo posto qui sotto. E' stata un'esperienza vivace, controversa, fondamentalmente positiva ma mi ha convinto che non esiste un luogo tranquillo per un uomo agitato. 

La letteratura siciliana fra lingua e dialetto : un connubio felice.- 
 " Che fosse vigilante se ne faceva capace dal fatto che la testa gli funzionava secondo logica e non seguendo l'assurdo labirinto del sogno, che sentiva il regolare sciabordio del mare, che un venticello di prim'alba trasiva dalla finestra spalancata. Ma continuava ostinatamente a tenere gli occhi inserrati, sapeva che tutto il malumore che lo maceriava dintra sarebbe sbommicato di fora appena aperti gli occhi, facendogli fare o dire minchiate delle quali doppo avrebbe dovuto pentirsi." A. Camilleri, La gita a Tindari, Sellerio Ed. Palermo. Febbraio 2000. 
Questo breve e recente estratto d'uno dei più famosi scrittori siciliani contemporanei illustra bene alcune caratteristiche di quella strana e composita creatura che è la letteratura siciliana quando essa si unisce, mescolandosi, al dialetto dell'isola. Perché si manifesti il fenomeno, sono necessari alcuni presupposti: il dialetto in questione deve essere molto antico, deve possedere un vocabolario ricco e articolato, deve infine esserci uno scrittore che inizi ad usarlo in una sua opera senza temere che essa debba perderne in dignità letteraria. Qui non si tratta di scrivere in dialetto qualcosa che potrebbe esserlo in lingua italiana: sarebbe un intervento troppo tecnicistico, fine a se stesso. La letteratura italiana deve molto agli scrittori siciliani, ben più dell'onore del Nobel; deve ad essi argomenti e tematiche originali, introspezione e analisi rigorose nate nel solco di una chiara tradizione europea ma rivissute con spirito nuovo, contaminato da una specifica "insularità", una dichiarazione d'appartenenza europea e continentale pronunciata con accenti mediterranei: il dialetto appunto. 
Pirandello rivoluziona il teatro italiano e europeo, pone al centro delle sue opere il problema dell'identità umana nella sua faticosa e mai risolta dinamica tra essere ed apparire. Si fa voce di un'Europa che sta per precipitare nel vortice del conflitto mondiale. La voce è in lingua italiana ma il tormento spirituale è tutto siciliano. Il premio Nobel è figlio dell'estremo lembo di costa agrigentina, là dove inizia l'Africa o finisce l'Europa, dipende dall'ottica culturale di chi legge e osserva. Pirandello non mescola, stilisticamente, l'italiano col dialetto siciliano: probabilmente l'etica letteraria del tempo non lo avrebbe permesso. Ma in alcuni casi (Liolà, La giara) scrive o riscrive alcune cose totalmente in siciliano; di solito ciò avviene per i temi più francamente scherzosi o sarcastici. E' come se il dialetto, in certi casi possa rendere meglio il senso profondo di ciò che si vuol comunicare! Situazione paradossale: uno scrittore premio Nobel per la letteratura ha bisogno di uno strumento "secondario" come il dialetto per dare forma compiuta ad una sua opera? Non è esattamente così o solo così. In realtà esiste per tutti i grandi scrittori siciliani un doppio piano di lavoro e d'ideazione: il primo in genere si colloca al livello degli studi e della cultura ufficiale ed esso fa sempre riferimento alla lingua italiana come distintivo e passaporto di una più ampia comunità intellettuale. Il secondo, più nascosto, resta comunque la linfa primigenia e vitale, il contesto all'interno del quale disporre gli elementi del proprio lavoro artistico. A voler fare una metafora potremmo dire che la partitura è italiana ma la chiave musicale di essa è invece siciliana, dialettale e dona all'esecuzione un timbro, una coloritura assolutamente unica. Visto da un'altra prospettiva questo doppio piano di lavoro potrebbe celare un'intima fragilità, un cronico pericolo d'inficiare la validità artistica non potendo risolversi in alcun modo lo scollamento fra cultura "nobile" italiana e il suo alter ego "volgare" siciliano e dialettale. In effetti, ad un esame superficiale le opere di Pirandello, Sciascia, Quasimodo, Lampedusa ed altri (l'elenco sarebbe molto più lungo) mostrano un dialetto in secondo piano, relegato a momenti particolari, apparentemente meno importanti, delle opere stesse. Quasi che la lingua italiana tenga a bada il dialetto per impedirgli di prendere troppo spazio, troppa libertà sostanziale e stilistica. Si è preferito allora dare al dialetto una sua specifica nicchia, un suo momento d'andare in scena, come dargli un’alternativa di secondo piano dopo avergli negato il diritto d'esser considerato con dignità di lingua? Non era questa l'idea dei grandi scrittori siciliani. Essi hanno, chi più chi meno, seguito una strada diversa legata, nei tempi e nei modi, all'epoca storica in cui hanno vissuto. Alcune opere sono nate e cresciute in dialetto siciliano come unico modo d'espressione o comunque l'unico valido (vedi Liolà di Pirandello); in seguito la trasposizione in italiano è diventato un vezzo, forse una sfida o un gioco intellettuale dal quale il dialetto esce vittorioso e con piena dignità artistica e formale. Altre opere mostrano una miscelazione più diffusa: in esse il siciliano è solo il lievito che affiora in un nome o nomignolo oppure in una breve frase o in una esclamazione particolare. Non potrebbe essere scritto diversamente, piccoli ma imprescindibili momenti senza i quali l'opera intera si trasformerebbe in altro. Possiamo immaginare un Don Lollò pronunciare parole con un accento e un intercalare diversi da quello siciliano nella " Giara" di Pirandello ? Che minatore siciliano sarebbe mai Ciaula senza quel nome e quei versi cupi e rauchi che imitano il gracchiare dei corvi nei cieli dei latifondi di Enna in " Ciaula scopre la luna"? Pirandello descrive la sorpresa, lo smarrimento e poi l'abbandono a qualcosa di più grande e più nobile dell'uomo. Il sentimento, la pace e il mistero dell'esistenza sono universali ma il cielo, la luna, la notte sono siciliani. Senza di essi il racconto sarebbe non diverso, sarebbe altra cosa. I due distinti piani dell'ideazione artistica sono quindi complementari, si muovono e vengono alla ribalta in tempi e modi diversi, non è possibile classificarli in modo prevedibile, non esistono scelte letterarie aprioristiche, i risultati sono visibili solo alla fine. Anzi in alcuni casi è soltanto una lettura ripetuta e approfondita a lasciare nella mente il senso vero e profondo di ciò che lo scrittore voleva trasmettere. In ogni caso, sia a piccole dosi sia in quantità più significative, il dialetto siciliano è indiscutibilmente protagonista nell'opera degli scrittori siciliani e, vista la loro importanza e notorietà, anche nell'immaginario sociale e letterario nazionale. Evidentemente non si tratta di una ragione squisitamente stilistica o formale e neanche di una moda stranamente protrattasi nel tempo. 
Deve esserci un motivo diverso che ha permesso ai letterati siciliani di raggiungere alte vette artistiche scrivendo in un italiano non approssimativo che però tracima qua e là in un altro linguaggio più antico e non meno elevato. Questa è la sensazione che se ne ricava: una lingua che è un italiano per tutti ma palesemente "siciliana" nella misura in cui si riconosce in essa uno spirito, un suono, un periodare che è tipico degli scrittori dell'isola. Probabilmente l'esempio perfetto di tale concetto lo si ritrova in Pirandello ma la vera novità sull'argomento è invece figlia di quest'ultimo decennio: essa ha un nome e un cognome, Andrea Camilleri. In lui i suoni, i fonemi, la sintassi… la lingua insomma è stravolta, reinventata. Nessuno avrebbe creduto che, al di fuori della Sicilia, qualcuno sarebbe riuscito non tanto ad apprezzare ma anche solo a capire i suoi romanzi. Camilleri, come di regola per i siciliani che scrivono, viene dalla letteratura in lingua italiana. Vi ha vissuto per cinquant'anni e lo ha fatto con grande bravura e dignità, poi improvvisamente ha inventato un personaggio e lo ha fatto parlare, pensare e sentire in dialetto siciliano. Un siciliano del basso agrigentino (le coincidenze storiche!) che si esprime in dialetto ma vive in italiano, nel senso che non soffre di sensi d'inferiorità culturali ed esistenziali nei confronti della lingua ufficiale. Quest'ultima gli è perfettamente nota, se la usa di rado è un fatto di scelta matura, non arrogante o speciosa, ma serena e misurata. Attorno, dentro e fuori ci sono le storie, le emozioni, le idee che potrebbero avere cittadinanza ovunque e ovunque essere comprese ma che, nel caso in specie, hanno un'identità inconfondibile ed isolana. A volte ci si chiede il perché di fatti a prima vista incomprensibili: la fruibilità per un lettore di Torino di un libro scritto in gran parte in dialetto siciliano mescolato ad un italiano ricco ed articolato è ancora un fatto difficilmente spiegabile. Un tessuto linguisticamente irripetibile, una trama misteriosa piena d'essenze nella quale dalla lingua italiana emerge, nei momenti più significativi, il dialetto che puntualizza e definisce al meglio ciò che l'italiano non potrebbe linguisticamente vestire. Non sembri questa valutazione solo un patetico arrampicarsi sui vetri, una valutazione benevola di un ibrido letterario francamente indigeribile: si tratta invece di un fenomeno linguistico frutto di un'evoluzione storica e culturale non sempre facilmente definibile nei suoi tratti essenziali. 
Di fatto dal XVIII secolo in poi l'elite culturale siciliana ha sempre guardato fuori, in Francia, Inghilterra, Germania alla ricerca di punti di riferimento meno asfittici di quelli italiani. Per fare un esempio calzante Pirandello si laureò a Bonn, specializzandosi in studi filologici con una tesi sul dialetto di Agrigento! Questa ricerca unitamente al desiderio di sentirsi parte di una comunità più ampia con pari dignità rappresentativa non ha però indotto gli scrittori siciliani a lasciare nell'oblio le proprie radici linguistiche e culturali. Così confrontandosi con le "lettere" di altre nazioni anche la lingua meno "nobile" ha trovato una sua ragion d'essere specifica e, nell'alveo più ampio della letteratura italiana, si è definita con una cifra stilistica di valore assoluto e perfettamente coerente all'ambiente socio-culturale che l'ha espressa. Diventa allora più facilmente comprensibile come per gli scrittori siciliani sia quasi naturale passare da una esperienza letteraria italiana ad una siciliana o ibrida senza che vi siano cadute stilistiche legate a forzature linguistiche di qualsiasi tipo. Si potrebbe parlare quindi di una sicilitudine della letteratura italiana, intesa come l'insieme delle forze che da un millennio si agitano nello spirito delle "culture" siciliane e che proponendosi non come scontro di civiltà ma piuttosto come nuova simbiosi culturale ha dato vita a quel felice connubio che ci mostrano le pagine di Pirandello, Sciascia, Lampedusa, Camilleri e tutti gli altri. Un connubio molto fecondo che ha regalato alla letteratura italiana pagine di esemplare pulizia stilistica senza per questo perdere in mordente e originalità. " Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d'introspezione, come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola s'impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati lì vigili anche quando non li udivamo." T.Di Lampedusa, Il Gattopardo. Feltrinelli editore 1969. 
Nel dialetto siciliano non esiste il tempo al futuro ma esiste la possibilità di guardare al presente e non dimenticare il passato: la Sicilia come gli scrittori che vi sono nati è tuttora una "metafora" dell'Italia e dell'Europa, tutto il male ma anche tutto il bene possibile portato spesso alle estreme conseguenze, anche in letteratura.

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Un uscio stretto ma ho i miei motivi: vi leggo quasi sempre in silenzio.